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L'Accademia di Imola è un posto particolare dove mio marito e io ritorniamo sempre con tanto piacere. La sua atmosfera, piena di musica, di storia e dei ricordi dei personaggi che lì hanno studiato o insegnato, ci permette di avvicinarci al mondo particolare creato più di 30 anni fa da Franco Scala, suo fondatore. Sono grata al destino per avermi dato la possibilità di essere qua, e di poter parlare con i musicisti che vi insegnano.

Questa volta vi presento una conversazione con la sovrintendente dell’Accademia Pianistica di Imola, Angela Maria Gidaro. A Imola, in Accademia, Angela è arrivata venti anni fa per studiare piano con il grande Maestro Scala ma, come spesso accade, il destino le ha riservato delle sorprese. Oggi, questa bellissima e giovane donna fa al tempo stesso la mamma di tre stupendi bambini e si occupa di tante cose che riguardano l’Accademia. Il Maestro la chiama il suo grande appoggio.

Perché 20 anni fa Angela si è trasferita ad Imola? Perché ha lasciato la carriera di pianista? Chi studia all'Accademia e come si accede? E ancora, quando e come avvicinare i bambini alla musica? Le risposte a queste e ad altre domande le troverete nell’intervista ad Angela Maria Gidaro.

Ringrazio moltissimo Angela per la sua disponibilità e il tempo che mi ha dedicato.

***

Angela: Sono stata fortunata. Ho incontrato il Maestro Scala a vent’anni, subito dopo il diploma con lode in pianoforte. Avendo studiato musica da fin da piccola, volevo capire come indirizzare il mio futuro. Avevo già fatto anche studi umanistici al liceo classico e, mentre frequentavo il conservatorio a Firenze, mi ero iscritta all’università, a Lettere indirizzo musicale.

Sono stata sempre consapevole che la mia strada con la musica, pur amandola, non poteva essere il puro concertismo. L’avevo capito da sola perché ero consapevole di alcuni miei limiti. Avevo un repertorio piccolo, perché ho sempre fatto molta fatica nella lettura e quindi necessitavo di molto tempo per assimilare i pezzi, e la mano piccolina. Alla fine riuscivo a fare dei programmi molto curati, però per me lo sforzo era quasi più grande del risultato. Poi mi inquietava molto il rapporto con il pubblico. Sentivo dentro di me una passione sconfinata per la musica ma capivo che non la potevo tradurre in un mestiere. Pero' ho avuto un il “coraggio” di volermi confrontare qui, in Italia, con un maestro così importante.

Prima di tutto, ho trovato nel maestro Scala un’umanità sconfinata. Lui, di fronte a un giovane che gli chiede un consiglio, non si ferma mai alla sola dimensione musicale. Prima di tutto si fa una domanda: “Ma questo ragazzo può cavarsela?” Non si ferma a dire "Chopin l'hai suonato bene, o male", ma prima ha questa preoccupazione: “Questo ragazzo può vivere con la musica o no?” E questa preoccupazione deriva prima dalla sua stessa biografia, dalla sua vita, perché il suo dramma è sempre stato quello di riuscire a cavarsela, con la musica. La domanda, quando si smette di essere studenti, e' proprio: "Come faccio a guadagnare, a mantenermi, a lavorare, a metter su una famiglia?" Conosco il Maestro da 20 anni e ancora oggi vedo che, quando fa le audizioni con i giovani, prima di dire “suoni bene” o “suoni male”, lui si pone questa domanda. Anche perché, essendo un insegnante, sa benissimo che magari puoi non dare tutto il meglio di te subito, in una audizione. Queste cose le sa. Come sa riconoscere le debolezze strutturali di un programma all'apparenza perfetto, magari tirato al lustro. Non lo puoi ingannare. È questa la sua grandezza: andare oltre il momento in cui tu stai suonando.

Io penso di essere stata molto fortunata perché ho studiato con lui due anni e grazie a lui ho iniziato a imparare ad ascoltare gli altri. Quando sono arrivata e l’ho conosciuto, ad Imola, riuscivo a giudicare me stessa - se un pezzo lo avevo suonato bene o male - ma non riuscivo a giudicare le esecuzioni dei miei amici, dei miei compagni, degli artisti. Non riuscivo a capire bene cosa ascoltare. Lo so che è un concetto molto particolare. Magari con i grandi nomi come Pollini, Michelangeli, capisci subito che sono straordinari. Però padroneggiare così la materia con senso critico mi mancava. E secondo me mi mancava perché nel mio percorso di studi io mi ero focalizzata troppo su me stessa. È un vizio che succede spesso e io fortunatamente l’ho riconosciuto.

Marina: Ma non è normale per un musicista?

A: Non è normale però, credimi, succede spesso. E lo capisci subito dalla critica di un musicista a un altro musicista. Capisci subito se questo è focalizzato se su se stesso o sulla musica in se'. Perché quando sei focalizzato su te stesso, ti aspetti che gli altri suonino l’interpretazione che tu hai in testa. Se la suonano in modo diverso da come la interpreti tu, vedi difetti.

M: Ma non vedi una diversa interpretazione?

A: Una persona equilibrata vede un’interpretazione diversa. Una persona focalizzata su se stessa vede ciò che manca dalla sua proiezione.

M: Ma perché bisogna avere questa visione? È una capacita’ importante per un musicista?

A: È tutto! Ad esempio, se noi abbiamo dieci allievi che fanno la stessa opera, ad esempio una sonata di Beethoven, in dieci modi diversi, riuscire a capire in ciascuna interpretazione, che sono tutte diverse, quale funziona organicamente e quale è debole è un’arte difficilissima. Noi diamo per scontato che tutti capiscano tutto ma, a mio giudizio, questa è un’arte difficilissima. Quando io sono presente agli esami degli allievi, qui, sento opinioni discordanti anche tra i vari docenti. E' tutto un divenire, tutto dialettico e molto bello, però capisci quanta arte c’è in qualcosa che si dà per scontato. Invece, è un'arte raffinata perché tra i docenti puoi avere quello più intellettuale, che in una interpretazione vuole leggere una Weltanschauung; quello più didattico, che guarda se ci sono i mezzi tecnici, strumentali; quello che è fissato e per il quale una interpretazione va bene solo se suoni la musica in un certo modo, altrimenti non hai capito niente; quello fissato sul testo, che ti giudica in positivo solo se hai fatto tutti i crescendo e i diminuendo con tutti crismi, come sono scritti.

Qua a Imola è bellissimo, perché tutti i docenti hanno un livello altissimo. Però qua siamo anche viziati. Io mi sono resa conto di ciò a 20 anni, al momento di fare questa esperienza. Adesso ho 40 anni e se guardo indietro mi dico che io ho incontrato la musica stando qui. Anche se ho smesso di suonare il pianoforte dopo due anni di lezioni con maestro Scala.

M: È stata una tua decisione?

A: Sì. Andavo molto bene all'università, mi sono laureata con lode in Estetica Musicale e volevo anche provare la carriera universitaria. Ero già d'accordo con il mio professore per preparare il concorso per il dottorato. Poi, nel 2004 il Maestro Scala mi dice: “Avrei bisogno di una mano in segreteria, ti va di aiutarmi part-time mentre continui i tuoi studi?”

Era un’opportunità di lavoro, di emancipazione perché, come tutti gli altri studenti, erano i miei genitori a finanziare i miei studi. Pero' a 26 anni hai anche il desiderio di essere indipendente, l’orgoglio, dopo tanto studio, di trovare un lavoro. Così ho iniziato e alla fine questo mondo mi ha catturata. E quindi ho fatto la mia scelta. Per tanti anni mi sono chiesta se fosse stata la scelta giusta. Mi ha guidato l’istinto, anche perché all’inizio è stata dura. Ti sto parlando dell’anno 2003, cioè 14 anni fa. L’Accademia era un po’ più piccola, meno strutturata, quindi ho fatto tutti i lavori partendo dal basso, dalla segreteria, dalle esigenze degli allievi. È ovvio che, essendo musicista, io capivo le loro esigenze ed ero sempre veloce nel risolvere i loro problemi, però mi chiedevo quale fosse la mia identità. Perché io sono una musicista e quindi, per me, che cosa dovevo fare? È stato un travaglio. E' però nella continuità che si realizzano i progetti, anche su se stessi. E sai... aiuto dopo aiuto, da part-time sono passata a lavorare otto, nove, dieci ore tutti i giorni, e ho vissuto sempre più da vicino le problematiche degli operatori culturali in Italia. Come si fa a far funzionare bene l’istituzione dal punto di vista dell'organizzazione, della didattica e dell'amministrazione? Perché siamo in pochi, l'Accademia è piccola, ci sono anche pochi soldi per avere risorse o persone che diano una mano nello sviluppo di alcuni settori.

M: Ma lo Stato non partecipa?

A: Lo Stato partecipa, ma non è sufficiente.

Noi con quello che facciamo ci possiamo permettere me e una o due persone in segreteria. E basta. Perché noi, che non facciamo business, dobbiamo chiudere i bilanci in pareggio. E in Italia è tutto un taglio ai contributi per la cultura. È vero che lo Stato, da tre anni a questa parte, contribuisce un po' di più, pero' ci copre solo una piccolissima parte del bilancio, neanche il 20%, quindi tutto il resto dobbiamo mettercelo noi. E quindi ho iniziato ad appassionarmi ai temi dell'amministrazione.

Da una parte, lavorando qui e ascoltando il Maestro Scala tante ore al giorno, anche con orecchio da musicista, ho affinato le mie competenze musicali: sentivo i giudizi, gli esami, i concerti, mi esponevo a un certo modo di intendere la musica. E negli anni mi sono scoperta sempre più capace di dare una mia interpretazione a un’esecuzione. Adesso, se ascolto un pianista ho un mio chiaro giudizio, giusto o sbagliato che sia. Dall'altra parte, però, mi sono appassionata ai temi della gestione dell'organizazione, dell'amministrazione, e ho deciso di affrontare un master in Business Administration pur venendo da un backgrownd umanistico. Io ho studiato Italiano, Latino, Greco e poi Filosofia della Musica, Storia della Musica. Poi mi sono iscritta al master e lì si faceva Accounting, Finanza, Strategia. Sai, per me è stata durissima, perché anche solo per imparare a usare bene un file Excel ho dovuto veramente studiare il triplo. E non ero neanche delle migliori. Pero' mi ha dato quella visione di insieme su una materia importante, che mi ha aiutato a pensare strategicamente facendo confluire sia i dati artistici che quelli amministrativi, i flussi economici e finanziari con le esigenze vere del "core". E quindi a orientarmi in alcune scelte per le quali il Maestro Scala andava ad intuito, mentre io magari avevo delle tecniche per fare più organicamente le domande di richiesta di contributo, per i sostenitori ad esempio, quindi a relazionarmi con uno storytelling che sia funzionale. Ecco, tutto questo io l'ho imparato lì. Prima avevamo un approccio un po’ naif, ma a me non piace occuparmi di un lavoro se non padroneggio la materia e quindi ora sto anche meglio con me stessa.

Poi capivo sempre di piu’ che nell’amministrazione c’è bisogno di una fusione con la materia musicale. Se no, le scelte contrastano. Nella musica e nella cultura è pericolosissimo affidarsi ad amministratori. Ci vuole un dialogo tra le parti. Questo è stato il mio obiettivo: mi sono sempre vista come una figura ponte che conosce la musica e che vuole dare una mano ad amministrarla. E ad un certo punto mi sono accorta che questo mestiere mi piace da morire, proprio perché mi sento al servizio della musica. Quindi il fatto di aver chiuso la tastiera, di non poter suonare, non mi manca più come nei primi anni. Perché per i primi anni lo stacco ti sembra quasi un fallimento, oppure ti manca qualcosa, ma io mi sono realizzata in modo diverso e totale, e per questo dico che sono stata fortunata. Preferisco questo a scelte diverse. Il mio lavoro mi consente di stare sempre in un ambiente molto stimolante, internazionale. Si parla di musica e la musica può essere amata lo stesso anche senza suonarla. Però ti dico che essere una musicista mi facilita nel gestire una realtà come questa. Essendo una musicista puoi risolvere al volo il 20, 30, 40% dei problemi perché conosci tutto dell'ambiente e non hai bisogno di competenze "altre". Parlo anche di sciocchezze, ad esempio di come calendarizzare delle prove di esame, come organizzare dei concerti etc. Sapendo bene cos’è la musica, come si muovono i musicisti, hai un know-how che ti consente di essere più veloce anche semplicemente per spostarli logisticamente. Quindi adesso io mi sento appagata, mi sento al "servizio". Se lavoro bene e questa cosa fa bene all’istituzione, io mi sento realizzata. C’è anche forse un sentimento etico perché sono stata fortunata, mi hanno dato tanto, la vita alla fine mi ha tolto ma mi ha anche dato tanto, e quindi io sono molto contenta. E poi nel frattempo ho potuto farmi una famiglia, avere i miei figli. Mi sono sposata nel 2009 a Imola. Mio marito non è del campo della musica. Abbiamo già tre bambini.

M: Sei così giovane e hai già tre bambini!

A: Ho 40 anni.

M: Suonano anche loro?

A: Non ancora. Adesso hanno 6 e 7 anni e comincerò ad avvicinarli dall’anno prossimo. Anche ora ogni tanto li porto ai concerti, sanno che lavoro qui in Accademia, qualche volta vengono qui in Rocca e ascoltano un po’ di musica. Io a casa ogni tanto metto i miei cd di classica e loro sono perfettamente consapevoli della mia vita e di cosa sia la musica classica. Devo capire se hanno voglia di studiarla, ma li lascio completamente liberi.

M: Secondo te, è importante far studiare la musica ai bambini come parte della loro educazione culturale? Da noi, in Russia, ci sono molte discussioni sul fatto se sia necessario far conoscere la musica ai bambini, in modo anche obbligatorio.

A: Io di ciò ho una visione molto chiara. Parto dal punto più importante. Chi studia musica, secondo me, ha una capacità di giudizio e di astrazione logica - intellettiva - potenziata, più forte rispetto a chi non studia la musica. Ne ho visto e ne vedo gli effetti. Come si dice in Italia, se hai studiato musica “hai una marcia in più”. Però il problema é come e fino a che punto studiarla. Affinché la musica ti dia una marcia in più, dovresti arrivare a studiare le fughe a 4 voci di Bach così che il tuo cervello riconosca le 4 voci e le segua indipendentemente, in autonomia. Allora hai potenziato il cervello! Però per arrivare a quei livelli bisogna che tu dedichi la tua vita alla musica. E non è giusto forzare un giovane a farlo, anzi è molto pericoloso. E' pericoloso perché rischi di forzarlo a fare qualcosa che non vuole fare. Un giovane che dedica la sua vita alla musica e non riesce a realizzarsi diventerà un disadattato, come dice il maestro Scala, una persona che sarà infelice per sempre. Se fai studiare la musica a scuola rimanendo a un livello minimo, probabilmente avrai delle persone più consapevoli della cultura musicale e che sicuramente capiscono che non c’è solo il pop e il rock, ma anche la musica classica o un altro tipo di musica. Però io non credo che se si studia la musica a un livello superficiale si ottengano quei benefici. I veri benefici della musica sul tuo intelletto li hai solo se le lasci un buono spazio, se tu la assimili, se ci rifletti e se ci soffri su. In altre parole, se ti scontri con l’anima creatrice. Io penso sempre a Beethoven. Se devi studiare una sonata di Beethoven prima c'è il momento tecnico - mano destra, mano sinistra, mani unite -, poi però c'è un secondo momento in cui ti rendi conto che sei di fronte a un genio della sintesi. Un musicista deve arrivare ad avere i concetti più importanti e un bravo docente ti aiuta a capire la vera essenza dell’arte musicale. E lì bisogna essere fortunati. Io ho scoperto la vera essenza della musica quando ho studiato per tre anni composizione, dopo la laurea. Quando ho iniziato a lavorare qui, mi sono detta di voler studiare anche un po' di composizione. Lì mi si è aperta una capacità di comprensione che prima non avevo. Ad esempio, per comporre una romanza, all'inizio devi fare lo sforzo di sviluppare un primo tema, poi un secondo tema, ed entrambi devono avere un senso ed essere in dialogo. E poi devi fare tutte le altre scelte: come trattare la melodia, l’armonia etc. Poi, tabula rasa e inizi a scrivere. Allora io ho iniziato a pensare: Beethoven, Chopin, Mozart... santo dio! E' difficile anche da esprimere, non riesco a verbalizzare...

Per ritornare alla domanda, la musica fa bene ma, affinché faccia bene, deve essere fatta in modo intensivo, e per farla in modo intensivo bisogna lasciare che la scelta sia dei giovani, senza forzarli. Ovviamente loro non ti chiedono di farla se non la conoscono quindi bisogna mostrare che esiste. Prima bisogna avvicinare i bambini alla musica, ma nel momento in cui poi c'è da scegliere se studiare o no, bisogna far sì che la scelta sia libera.

M: A proposito di Mozart. Tutti sappiamo che fu un genio, ma senza lo sforzo di suo padre non sarebbe diventato Mozart.

Un bimbo, anche se ha un grande talento, è pur sempre un bambino che vuole anche giocare in cortile con gli altri bimbi. Ce ne sono pochi che hanno una volontà così forte da farli studiare per ore ed ore. Questi vivono in questo modo, non si sforzano di studiare, ma lo fanno con piacere. In questo caso, come devono comportarsi i genitori?

A: Forse ti deludo, ma ho due risposte. Se sei di fronte a un genio, di fronte a una persona destinata a vivere di musica, ti basta spingerlo un po’. La direzione è quella. È predestinato. Se un bambino è destinato, è un bravo musicista, ha facilità, quella è la sua strada e ci potrà vivere. Questo è un bambino che si appassiona subito. Anche se magari vuole andare a giocare, c’è una attrazione fatale, anche nelle difficolta’. È lui che sceglie. Ma quei casi possono essere il 5-10%. E sono anche i casi più facili per noi, perché noi abbiamo sempre la solita preoccupazione di fronte un ragazzo: di cosa vivrà? Potra’ vivere di musica? Questa domanda è il fondamento dell’Accademia di Imola.

Però io posso darti anche un’altra risposta. Nel primo caso, non è in gioco il genitore. Il genitore può spingere un po' se vede della pigrizia, se però il ragazzo è predestinato, se si innamora, se ha per la musica un'attrazione fatale, va avanti da solo. Ha sete di musica. Se il bimbo invece resiste e la sente come una disciplina, io da genitore gli farei finire un ciclo, provando a spingere: "Dai, ti fa bene". Come accade anche quando fanno sport. Per me non mollare subito è un valore educativo. Nella vita del resto tu non devi mollare mai. Fare una cosa che ti crea fatica è una forma di disciplina, quindi ti fa bene comunque. Però, a un certo punto, se la musica o uno sport deve diventare la vita del ragazzo la scelta deve essere sua. È una cosa sciocca, però io i miei figli li ho mandati in piscina. La piscina d’inverno è stancante, però io credo che faccia loro bene. Anche a me ha fatto bene. A livello educativo, io voglio che concludano un "ciclo". Non voglio che cambino idea ogni cinque minuti: prima vadano a karate, poi a basket, poi a tennis... No! Questa non è la vita. Al di là di ciò che scegli, bisogna che tu ti dia un obiettivo. Se l’obiettivo è avere autonomia in vasca e galleggiare da solo e ti ci vogliono tre anni, tu vai avanti finché non l'hai raggiunto. Io ora ti accompagno, ti aiuto. Poi, se da grande decidi che vuoi specializzarti o cambiare, va bene. Io credo tantissimo nella "spinta" come valore educativo. I bambini del resto non hanno neanche voglia di fare i compiti per la scuola... Tornando alla musica, se uno dei miei figli vorrà prendere lezioni di musica, ci daremo degli obiettivi. Ad esempio, arrivare fino a suonare con le due mani, saper leggere le note, avere una certa indipendenza. Ci daremo un obiettivo e io lo spingerò a raggiungerlo, anche quando non ne ha voglia. Per coerenza e anche perché questo gli servirà nella vita. Quante volte nella vita devi portare a termine un impegno che non hai voglia di affrontare. Questa è disciplina. E da genitore so anche che la musica fa bene, perché imparare la musica a memoria sviluppa la memoria, imparare a suonare con due mani insegna l’autonomia, quindi come genitore ne sono contenta e te lo faccio fare. Vivere di musica, però, è un’altra storia.

M: Ma, per un bambino, qual è l’eta giusta per cominciare? Quand'è che riesce a capire?

A: In realtà, secondo me, l’eta giusta è prima possibile. Ma tu mi chiederai perché i miei figli non li ho fatti studiare subito. Onestamente, forse io ho limitato i miei figli. Questa scelta deriva probabilmente dall’ultima traccia di sofferenza rimasta dopo aver smesso di suonare. Mi ritengo fortunata, miracolata, perché ho potuto vivere per la musica lo stesso ma io ho nel cuore tutti i ragazzi del mondo che studiano musica. E' come se vivessi tutte le loro paure di non realizzarsi, di non riuscire. E' come se percepissi tutte le loro emozioni: la sfida di farcela, la delusione di non farcela. Ci sono insegnanti che si approfittano dei ragazzi solo perché vogliono guadagnare, altri perché vogliono fare una grande scuola a loro nome. Ci sono "vittime" della musica e stanno tutte nel mio cuore. Io soffro per questo. Però fa anche parte della vita.

E poi ogni bambino ha una fiamma diversa dentro. Ad esempio il mio primo figlio ha iniziato a leggere e a contare a due anni e mezzo. E' appassionato di astrofisica. Guarda i programmi che parlano del sistema solare, dell’universo, delle stelle. Ha voluto che lo portassi all’osservatorio astronomico. Ben presto mi sono resa conto che questo bambino ha una predilezione per la matematica, per l'astrofisica. In casa mia ci sono libri su tutto, e quindi stimoli per tutto. Lui ha scelto matematica e fisica e vive di questo. E' la sua passione e io ho cercato in ogni modo di capire e assecondarlo. L’altra bambina, da quando aveva 2 o 3 anni, faceva costruzioni di legno dall'equilibrio impossibile. E poi disegna. "Mamma, io voglio costruire le case, i ponti, le navi", mi dice. Magari vuole fare l'architetto. Cerco sempre di mettere a disposizione stimoli in casa a seconda delle loro predisposizioni. L’altra bambina ha una sensibilità particolare nei confronti degli odori. E' in grado di sapere se in un piatto c’è la cipolla. Lei mi dice: “Mamma, io da grande voglio fare i profumi”! “Vabbè! Ti manderò a Parigi!!! Farai i profumi per Chanel!”

C’è un valore in cui credo tantissimo, l'impegno. Ci porta un po’ fuori della musica, però se hai una fiamma, hai un obiettivo, aspira al top! Cerca di arrivare in cima all'Himalaya! Fai un'esperienza di vita di quella cosa che ti appassiona! Ti piace l’astrofisica? Studiala, studia la matematica, ma studiala tanto. Fai più esercizi di quelli che ti chiedono di fare a scuola. Io stimolo continuamente i miei figli. Questo è un principio educativo in cui credo. L’anno prossimo chiederò loro se vogliono prendere lezioni di musica e capirò se si appassionano o se la vogliono fare solo fino a un certo punto. Benissimo, però rimango convinta di una cosa: la musica fa bene solo se le dedichi con profondità diversi anni di studio, altrimenti rimane un sapere, parte della cultura personale, bene! Però non è questo ciò ti apre la mente e ti dà una marcia in più.

M: Io ricordo che a 6 anni mi sono appassionata di pianoforte e l’ho studiato per alcuni anni. Non pensavo di fare la musicista, ma queste lezioni mi hanno dato tantissimo e mi hanno fatto innamorare della musica classica. Questi studi mi hanno arricchito molto. Credo sia bello e importante far studiare la musica ai bambini e magari anche forzarli un po’, no?

A: Guarda, alle scuole normali si fa musica un’ora a settimana e gli insegnanti si sforzano di insegnare le note. Ma non è quella la conoscenza che ti fa appassionare o che ti dà dei benefici. Devi studiare diversi anni il pianoforte o il violino o il violoncello, bene o male, ma ti devi scontrare con la tecnica, con la memoria, con l’arte. Allora, hai dei benefici. Un caso come il tuo è proprio il caso che intendevo. Lo studiare alcuni anni ti ha dato dei benefici a tal punto che ti ha fatto innamorare della musica. Se lo studio rimane solo quello che si fa a scuola normale senza approfondire almeno uno strumento, non basta per far appassionare un bimbo alla musica classica.

M: Forse molto dipende anche dall’insegnante...

A: Cerco di esprimermi meglio. Studiare musica, anche se non farai il musicista, ti lascia delle tracce che ti rendono migliore. Però questo significa "fare" musica, avere un’indipendenza, riuscire a suonare. Se invece la conoscenza della musica rimane una cosa teorica fatta a scuola una volta alla settimana, non basta. Ai ragazzi indichi solo che esiste, ma non hanno reale coscienza di cosa sia. E parlo anche dei miei figli che vivono la mia vita con la musica di riflesso: li porto ai concerti, sanno che la musica esiste ma non ne hanno coscienza. La coscienza arriva nel momento in cui ne conosci gli strumenti e provi a farla. Anche se poi farai l'avvocato, il medico, il fare musica ti lascia una traccia indelebile, profonda. In linea di principio, sarebbe anche giusto farla fare a tutti perché la musica fa bene. E' stato dimostrato anche dalla scienza neurologica: se il cervello si concentra, si applica per fare musica, si avviano delle connessioni neurologiche che portano a uno sviluppo cerebrale. Sì, bisognerebbe farla a studiare a tutti, per qualche anno. Non sarebbe male.

M: Ma a te non manca lo strumento?

A: A me lo strumento manca da morire. E se qualcuno mi dicesse che, miracolo, domani potrei andare a fare un concerto sarei forse la donna più felice del mondo. Ora ho 40 anni invece di 20, quando ero meno strutturata. Adesso, sono anche convinta di essere molto più capace di relazionarmi in modo dialettico con l’opera d’arte e con il compositore, e di comunicare e prendere in mano le emozioni del pubblico. Te lo dico anche perché alla fine ho dovuto affinare un po’ di public speaking perché sono quindici anni che presento le stagioni di concerto. E alcune persone mi hanno persino detto che vengono ad ascoltare non solo la musica, ma anche la mia introduzione. Che dura non più di quattro o cinque minuti.

M: Cioè, introduci l'opera prima della esibizione?

A: Sì, ma per soli quattro o cinque minuti. E' un'estrema sintesi dove cerco di comunicare la passione e quei fondamenti estetici e storici che consentono di "situare" l'opera: Romanticismo, o Illuminismo, o primo Novecento etc.

M: Un’esperienza fantastica anche come educazione musicale.

A: Infatti il nostro pubblico cresce. Non amo parlare di me, però gli spettatori sono molto contenti. E quando mi salutano mi dicono “grazie!”. Così mi sono resa conto che sul palco la mia comunicazione funziona! Non solo non li annoio, ma anzi li informo sulla musica e sulla scuola. Un certo feeling con il pubblico quindi io ce l’ho. Mi sono detta tante volte che se avessi avuto questo stesso feeling con la musica sarei stata al top. Però la mia storia è stata diversa. Talvolta alzo la tastiera del pianoforte a casa e ho voglia di metterci sopra le mani, ma dentro di me so quale dovrebbe essere il risultato finale e allora mi dico: “No, non suono, perché lo suono male, rovino la musica. Piuttosto ascolto un CD”.

M: Ho intervistato vari musicisti, ma nessuno è del tutto convinto di sé. Secondo te, un concertista, anche uno molto bravo, può arrivare ad essere contento o non lo è mai? E perché?

A: Mai. La perfezione è un’aspirazione. Io sono convinta che, se senti i pianisti, ti diranno che ci sono stati dei momenti nella solitudine del loro studio in cui hanno raggiunto la migliore interpretazione possibile. Ma poi, sul palco, con la tensione del palco, quell'istante di perfezione non lo raggiungi mai. Come sai, purtroppo, il musicista è anche un attore, un interprete. Quello che conta è l'interprtazione lì e adesso, sul palcoscenico e di fronte al pubblico. E lì, la perfezione non la raggiungi mai.

M: Come si fa, allora, ad andare avanti se si hanno sempre tanti dubbi e non si è mai come si vorrebbe essere?

A: Questo, secondo me, è un’anelito molto umano. In realtà, quello che ti fa andare avanti è proprio il dubbio. Se ti senti arrivato, alla fine non percepisci più l’aspirazione, l’emozione di fare quello che fai. Per fortuna c’è il dubbio! Io ritengo questa insicurezza e questa insoddisfazione non un di meno, ma un di più. È ciò che ti spinge a fare sempre meglio. Il dubbio deriva anche dall'ascoltare i grandi interpreti. Quando ascolti Radu Lupu che suona gli Improvvisi di Schubert, senti che non sarai mai a quell’altezza. O Lazar’ Berman che ti suona Liszt, o il Quarto di Rachmaninov, tu ti dici che è irraggiungibile!

M: Ma non è pericoloso per un giovane musicista ascoltare i grandi?

A: È pericolosissimo, ma un musicista deve crearsi la sua identità. Quindi le grandi interpretazioni, se da una parte sono un pericolo, dall’altra sono un'aspirazione. Chi ha equilibrio e struttura sta in questa continua oscillazione, ma ti sfido a trovare un pianista felice, anche il più grande. Più sono grandi più hanno dubbi, più sono tormentati più sono infelici.

M: Allora quali qualità deve avere un giovane musicista per poter andare avanti e diventare un buon concertista? Anche i grandi, ovviamente, non sono nati tali, quali forze li hanno spinti a proseguire nel loro percorso e a raggiungere la vetta?

A: Secondo me, un concertista deve avere nervi saldi e una personalità ben strutturata. Deve accettare di cadere ed essere pronto a rialzarsi e ripartire. Deve avere la pazienza di fare un grandissimo lavoro su se stesso prima di lanciarsi, perché essere studenti oggi è diverso da com'era 20 anni fa. Per gli studenti di 20 anni fa, il tempo aveva un suo significato. Facevi un passo alla volta, c'erano dei luoghi e dei momenti che ti accreditavano: se vincevi quel concorso, se suonavi in quella sala. Era un cursus honorum. Adesso, con la tecnologia, la velocità ha spazzato via tutto. Ci sono sedicenni che si accreditano su Youtube per far vedere quanto sono bravi. E' vero, l’età oggi si è abbassata ma tu, anche a 15-16 anni, devi sapere che hai ancora bisogno di formarti, costruirti un repertorio. Invece di aver voglia di svolazzare subito qual e là, devi avere i nervi saldi e la consapevolezza che il percorso è pieno di difficoltà. Inoltre, io credo che quello che ti rende "grande" sia anche la serietà del tuo approccio. Se sei consapevole di aver faticato sul repertorio, di aver studiato tanto, di aver trovato la tua identità, se sei pronto al momento giusto allora te la cavi. Se vai dietro all’effimero, se ti butti prima di essere pronto, oggi puoi anche diventare famoso ma domani un altro nome cancella il tuo e allora le cose si fanno difficili. Ed è nei momenti difficili che la solidità della tua formazione e il bagaglio che ti sei costruito possono fare la differenza. Tanti crollano, e crollano perché per fortuna con l’arte non si può ingannare. La qualità più grande di un concertista è essere solido, strutturato e determinato. In altre parole, è il carattere. La chiave del successo, prima che nelle mani è nel carattere.

M: Ma come hai detto all’inizio della nostra conversazione una persona deve avere anche talento. Senza di esso non si può neppure cominciare. Come si fa a capire se c’è talento o no?

A: (Sorride) Questa è la domanda da un milione di dollari. Il Maestro dice che lo capisce in cinque minuti. Se sei un bravo insegnante e hai un bravo allievo lo puoi far arrivare ad avere un diploma con lode, ma questo non vuol dire trasformarlo in un musicista. Questa è tutta un’altra storia. Tu devi intuire se questo ragazzo ha capacità espressiva autonoma, se ha voglia di trovare un senso a una frase senza che tu gli dica "rallenta... cresci... stacca... diminuisci!". E se lo fa con espressione, con un anelito, con un momento di sorpresa, con della tensione interiore. Se sì, ecco che ti dici: “ah, però!”.

Secondo la mia esperienza, il talento ha tante componenti. Talento vuole anche dire avere un certo "piglio". Quando un ragazzo guarda per terra e trema vuol dire che è fragile. Se invece è sicuro e disinvolto, vedi il piglio del ragazzo. Poi nel momento in cui mette le mani sul pianoforte, devi valutare se crea le frasi con espressività, se cerca di dare un senso musicale oltre che fare sfoggio di bravura esecutiva. E non importa se fa due o tre errori, l'importante è la sua energia e la sua espressività. Nel talento c’e’ poi anche la tenuta di nervi perché uno deve essere capace di portare a compimento un'opera senza sbagli, e non sto parlando di due o tre note che sfuggono, parlo di vuoti, di blocchi.

E' in queste due o tre componenti che tu ti accorgi, già dopo pochi minuti, se un ragazzo ti sta dando della musica o sta eseguendo un brano intimorito e di fretta. Inoltre, un docente che deve iniziare un percorso con un allievo non deve stare a sentire se in quel momento il ragazzo fa un pezzo alla perfezione. Ti aspetti la perfezione se vai alla Scala ad ascoltare Sokolov, ma in un bambino di 12-13 non è quella che devi cercare. Devi valutare se ha intensità, se ha tenuta, se ha piglio, se ha capacità comunicativa, e magari può fare anche tanti sbagli. E' capitato che il Maestro abbia accettato persone rifiutate da altri docenti. Ha fiutato un qualcosa che aveva però bisogno di lavoro. L’anelito artistico è il talento per eccellenza.

M: Le scelte del Maestro sono allora basate in parte sull'intuito?

A: Sì, però il suo intuito è basato sulla capacità di riconoscere se la persona seduta lì, al piano, ti stia dando espressività o stia eseguendo delle note meccanicamente.

M: Chi può entrare nell'Accademia?

A: Tutti possono entrare. Può entrare sia un bambino di nove anni molto talentuoso sia un adulto di vent’anni, che quindi ha già una bella esperienza, per fare il triennio.

M: Quanti candidati prendete ogni anno? C’è un limite?

A: Il limite è dettato dal talento del ragazzo. Se capita un’annata in cui ci sono tanti talenti, vale la pena prenderli tutti. Altrimenti, non li prendiamo. E’ ovvio che comunque rimaniamo nell’ordine di una decina di nuovi ragazzi all'anno. E' sempre un numero contenuto.

M: Succede che gli studenti lascino l'Accademia?

A: Sì, capita, ma ho visto casi diversi. È capitato per scelta, per problemi personali. I ragazzi hanno scelto di cambiare, o di trasferirsi all'estero, o di cambiare vita e lasciare la musica. A volte, invece, qualcuno è stato anche mandato via, nel primo o secondo anno. Può capitare che un ragazzo venga scelto ma poi magari delude. Era perfetto all’esame ma poi, al momento degli esami interni, fallisce. I ragazzi devono fare dei programmi durissimi durante l’anno. Già dai 19-20 anni devono portare due programmi di recital, due concerti per pianoforte ogni anno. Di questi ne viene estratto uno solo quindici giorni prima dell'esame. Quindi devono essere pronti a farli tutti e due. E qualcuno non ce la fa.

M: Per il modo in cui è organizzata, l’Accademia di Imola è unica in Italia, forse lo è anche nel mondo?

A: Almeno così raccontano. Io viaggio poco, ma ho sentito che è abbastanza unica. All’Accademia di Imola, il Maestro Scala ha dato una linea di condotta basata su certi principi. Ha detto: “Voglio scegliere, e voglio che insieme scegliamo, solo ragazzi che abbiano già talento. Non voglio prendere ragazzi per fare numero e per raggiungere una certa quota di iscrizioni. Se i ragazzi hanno talento ma non hanno soldi, dobbiamo tutti sforzarci per aiutarli. E mentre stanno qui, in Accademia, tutti gli anni fanno esami e li ascoltiamo tutti insieme. Ci mettiamo tutti in discussione per dialogare in merito a ogni singolo ragazzo.” Quindi ogni ragazzo è sotto giudizio tutti gli anni. E allo stesso tempo sono sotto giudizio anche i docenti, che si contestano vivacemente, si scontrano. A volte ho sentito opinioni differenti anche a livello molto alto. Il Maestro ha creato una comunità che vuole affrontare un tale impegno per il solo bene del ragazzo.

Forse l'unicità dell'Accademia sta proprio in questo approccio sincero verso i giovani, perché sono sicura che bei talenti e bravi docenti ci siano in tutto il mondo. Non ho dubbi che ci siano delle classi top anche a Londra, a New York, a Pechino... L'aspetto particolare qui è che si è creata una comunità che condivide gli stessi valori. Anche se tutti i docenti, se tu li intervisti, ti diranno cose differenti sulla musica, sull’arte. Ma questo è bello, vuol dire che c’è vivacità! Ma poi alla fine ogni sforzo e ogni discussione sono guidati dalla linea data dal Maestro Scala fin dall’inizio. L’Accademia di Imola è questo: una comunità basata su valori condivisi e votata allo sviluppo del talento.

Marina Nikolaeva/Imola, maggio 2017

 
 
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